presentazione di L.Mazzarelli
Si può dire in poche parole: la pittura moderna nasce dal conflitto tra «Pittura» e «Disegno». Mentre questo perde rapidamente la sua presa sulle cose, quella si autonomizza
Il movimento pittorico che andò progressivamente affermandosi dopo la seconda guerra mondiale ebbe più di un motivo per farsi chiamare Informale. Con l’informale la materia pittorica è sciolta definitivamente dai vincoli che la legavano al valore referente naturalistico o simbolico il quale le forniva tanto l’identità quanto, al contempo, l’alterità.
Su questo rapporto costitutivamente ambiguo si fondava l’Icona L’icona era una vera e propria figura magica. Se infatti la Figura è un quantum circoscritto di superficie pittorica che attiene essenzialmente all’universo della rappresentazione grafico-pittorica e può qui vivere di vita propria, l’Icona è una figura che si determina solo nella misura in cui rimanda a un referente esterno al quadro della rappresentazione. Di qui il suo essere Imago. Immagine, appunto! O, per dirla con Platone: copia della copia di una essenza la cui vera identità non è mai del tutto raggiungibile. Cionondimeno l’Imago fondava un rapporto tra mondo delle apparenze e mondo delle essenze che forniva alle rappresentazioni grafico-pittoriche la loro interna costitutiva mobilità semantica, vale a dire buona parte della loro ricchezza.
La sequenza della dissoluzione delle arti visive moderne giunge infine alla conclusione quando anche la Linea in cui è trattenuta-qualificata la Figura si sfilaccia e scompare.
Sciogliendosi da ogni figura la «Pittura» scopre la propria corporeità: i pigmenti mesticati con i leganti tradizionali lievitano, si accrescono in croste grumi masse frastagliate e tumescenti: diventano «Materia»! Una materia greve lutulenta che tracima dalla superficie della tela e avanza travolgente incorporando cristalli terre carte ciottoli metalli foglie fuscelli…
Ma non tutti coloro che scelgono di operare in questi territori desolati si lasciano prendere nel gioco funesto della libertà senza limiti che si offre a compenso. Sanno che a lungo andare la manico-lazione della nuda materia pittorica, quanto più fondata sull’oggettività e sull’immanenza, va inesorabilmente incontro al Nulla. C’è anche chi si avventura nell’«informe» perché coltiva la speranza di evocare l’Aura. Impresa quanto mai ardua.
L’Aura era l’ente ineffabile della rappresentazione visiva su due dimensioni di cui erano diventati maestri Leonardo Tiziano Correggio Rembrandt Turner ... Quando la «Pittura» completa il suo processo di autonomizzazione che la riporta in braccio alla nuda materia, l’Aura non per questo scompare. Resta come vuoto fisico: autentica forza gravitazionale che muove l’etere intorno. Resta come nostalgia e bisogno ... Solo l’Aura, d’altronde, avrebbe il potere di ulteriorizzare-metaforizzare-trascendentalizzare la materia bruta e condurla in un mondo dove i giudizi sospesi si aprono all’ineffabile ... Ma è un potere che solo agli eletti è concesso.
Vi è però nella «Materia», talvolta, un che di indefinito che trasmette messaggi in cifre. Non dà risposte. Al contrario, interroga chi la interroga. Non è L’Aura ma ne porta il respiro.
Già Leonardo aveva segnalato la magia dei vecchi muri tirati a calce corrosi dal salnitro. Nelle macchie variamente modulate che in essi “informalmente” si formano ognuno poteva rintracciare — volendo — i propri fantasmi.
Ebbene, è in questo orizzonte pieno di tante insidie e qualche promessa, che nel 1998 Annalisa ha scelto di operare: in quella materia caotica che pulsa — residuale palpitante delle catastrofi semantiche dell’Occidente — lei cerca e interroga i suoi fantasmi.
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II
Vi è tuttavia un salto nella vicenda stilistica della pittrice. Dalla fase iniziale del tutto assorbita nell’astrazjone, in una serena, rassicurante dislocazione di tessere colorate nello spazio, qui e li coperto dal bianco opalescente delle carte veline, passa improvvisamente a uno dei tanti versanti in cui — sopra, sotto o a fianco degli scampoli liquescenti dell’icona — si è riproposto l’informale.
Come per tutto l’orizzonte delle arti visive successive alla fine delle avanguardie storiche anche nella pittura dì Annalisa si disfa e si rifà ciò che appena ieri era stato disfatto e rifatto. ma qui, più che altrove, mi sembra, la superficie così accanitamente manipolata non si lascia semplicemente annichilire: resiste. Sotto la pesante coltre materica che ribolle, certamente si nasconde qualcosa di inatteso e terribile.
Sarebbe azzardato associare questa crosta tumescente all’Aura, ma dal punto di vista del potere ulteriorizzante vi è una sorprendente assonanza .. Certo l’Aura è Cielo, il principio etereo per antonomasia; questa, più che Terra, è fango disseccato, anzi cielo: ma sì, fango e cielo!
Appunto! La magia cui l’autrice ha atteso con straordinaria sapienza consiste infatti nel mescolare un principio etereo con un principio corporeo affinché ognuno di essi si trovi clamorosamente fuori cardine. Non già enti pacificati, si badi, ma solidarmente estraniati. E’ questo il motivo per cui la “crosta” acquista una sorprendente mobilità semantica: se vi indugi, verrà fuori qualcosa.
Così è: vellicata dall’ansia, quella si apre dall’interno per lasciare un varco alla luce. Ahimè! una luce tumefatta e livida che accompagna gemiti sospiri deliri. Lampi che presto ‘ritornano al bitume. alle terre brunite, ai cristalli di sale.
Quando all’improvviso dalle brume di un dipinto a lungo interrogato le si para dinanzi una inquietante figura bianca, Annalisa ha un tuffo nel cuore. Mi chiama per telefono: «Sai, è uscito — mi dice — ho paura!».
Quando mi precipitai nel suo studio, anch’io ebbi paura: stentavo a capire. «E’il fantasma — mi spiegava concitata — il fantasma!».
Il fantasma?
Da quel momento una folla di fantasmi cominciò a volteggiare in mulinelli di luce, vento, polvere, sopra le croste incandescenti, le fessure, i crepacci dei tenebrosi paesaggi materici di Annalisa. Li avrei presto visti danzare lungo le pareti della “Bacheca”, mai come allora inquietanti e seducenti, scolpiti a giorno dalla luce dei fari della galleria, fin quasi a uscire dalle loro nicchie di terra e oltremare.
Ho rivisto qualche giorno fa alcuni quadri dì quei periodo (‘98). Tra questi «l’Urlo», un dipinto verticale il cui titolo richiama esplicitamente Munch. Ma il richiamo è solo tematico, non stilistico. La celebre icona del pittore norvegese quantunque si attorca serpentina nel proprio dolore e sembri sul punto si sfaldarsi è pur sempre trattenuta dal fasciame stretto delle accese pennellate: è una figura costruita, tutto sommato; la figura della pittrice sarda è più sfatta che fatta: è un’accensione fatua: da un minuto all’altro potrebbe sparire. Il volto è appena accennato, la mano che vi si appoggia sgomenta è una liquida sciabolata di colore che ne sottolinea più il tormento che i tratti. E’ soprattutto la luce che lo manifesta: quella luce che scaturisce dall’interno per autoaccensione grazie alla strabiliante invenzione che Rembrandt regalò alla pittura e agli uomini
Ho ritrovato un altro pezzo che nel ‘98 mi aveva suscitato emozioni e pensieri. L’autrice l’ha intitolato «Prigioniero». Vi appare una figura piegata che volge lo sguardo angosciato verso una massa bruno-ocracea all’altezza della propria spalla destra. Mi sembra di scorgere in essa un’ala e, di riflesso, un becco di rapace. Ma non potrei giurarci ... Anche io — sapete — ho i miei fantasmi!
Ma sì, quella figura stranita che affiora tra ocra e oltremare, che dico, tra fango e cielo, è senza ombra di dubbio il tragico Prometeo: l’eroe temerario della genia predestinata che inventò il Progresso!
Sicché l’eterno rapace che eternamente gli strappa il fegato a brandelli attua con largo anticipo la vendetta degli Dei per ciò che, tra cielo e terra, gli uomini faranno del fuoco in tremila e più anni di storia.
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III
Facciamoci qualche domanda. Le figure dell’angoscia del tenore del dolore “escono”, afferma colei che si è assunta il compito di svelare gli eventi che una Pittura, emancipata dalle partiture ordinative e nominative del Disegno, sorgivamente suscita senza tuttavia qualificare. Noi, dinanzi a così eloquenti prove, non possiamo che convenirne: escono. Ma da dove e perché escono? Qual è la scaturigine e il motore di tanto prodigio, un prodigio che ha il potere inaudito di precedere l’Aura?
Siamo così giunti al cuore del problema.
Solo il dolore ha il potere di anticipare la Poesia e di dare risonanze umane alla materia bruta. Guardando quei quadri, veniamo così a sapere che l’artista ha molto sofferto. Non i dolori del parto creativo, come si dice comunemente per gli artisti impegnati nella creazione delle opere d’arte, ma molto di più, molto di meno
Se già al tempo degli Uomini il Dolore vivo non faceva opere d’arte ma le rendeva futili, ora, in epoca tardo moderna, rende oscena ogni sua rappresentazione. Si rappresenta da sé. Va in scena senza più interpreti costumi scene e copioni. Non produce più catarsi sdoppiamenti liberazione. E’ il dolore che va al dolore e vi resta nell’abbrutimento e nella condanna senza remissione. In questo, appunto, la tragedia moderna si distingue dalla tragedia di Eschilo e Sofocle e fa epoca! Auschwitz, Hiroshima, i carnai a cielo aperto dell’Africa centrale, la pestilenza senza fine della fame, della sopraffazione e dell’umiliazione dei popoli in tutto il Pianeta, sono le sue più autentiche rappresentazioni. Nessuno potrebbe osare metterle in opera per farne un pezzo d’arte. E non solo perché l’Arte da troppo tempo s’è staccata dalle cose, dalla destinazione e dai destinatari
Il Dolore è nudo come gli uomini dopo il sacrilegio di Prometeo, nudo come la materia che la mistura annientatrice dell’hybris con la téchné ha incancrenito. Dolore senza remissione che sgorga dalle ferite aperte dell’animo dissanguato. Da qui esce, ci dice Annalisa. Anche noi impoetici, pieni di croste purulente e cicatrici mai richiuse. Anche noi messi in scena cosi, senza paludamenti e parole, per spettatori che non hanno occhi naso orecchie.
Non sembrava possibile neppure negli abissi più oscuri del male: l’orrore sprofonda in sempre nuove voragini. Il dolore che porta al dolore trasmette per empatia la colpa e l’abiezione del carnefice: la vittima è l’allievo ammaestrato che cerca una vittima ancora più indifesa per rifarsi e trasmettere la catena ... E’ così che Auschwitz riconduce ad Auschwitz
Guai all’artista che tale orrore cerca di rappresentare! Egli non può far altro che estetizzarlo, farne una cifra stilistica di cui compiacersi. Il dolore nudo che la Modernità ci infligge non ha parole, non ha suoni, non ha immagini.
IV
Di Aura e di catarsi si parlava. Ebbene, la pesante coltre materica della pittura di Annalisa che si apre sulle ferite aperte del suo animo, li evoca ma non li raggiunge. Li annuncia forse, ma non vi si scioglie, né, pertanto, può scioglierci dall’angoscia.
L’Arte — voglio dire la Poesia — si è allontanata dalla comunità umana. Ha perso il ricordo dell’innocenza e della felicità della creazione divina. L’Aura è gioia, è costruzione di pace, è fratellanza, è benessere nell’essere in bene di tutte le cose e di tutte le creature!
Per fortuna Annalisa non ha neppure tentato di creare opere d’arte. Si è fermata prima. Prima di un sacrilegio e di un atto di superbia comunque destinato all’insuccesso. Solo così ha potuto testimoniare autenticamente della propria condizione umana e ha avuto il privilegio di accedere per un attimo che vale una vita in quel luogo sacro in cui gli uomini si riconoscono e si chiamano per nome: sentirsi fratelli nella sofferenza e nella ribellione alla violenza è già costruire un frammento di quella Comunità che da sempre la Specie ha posto al sommo dei suoi ideali
Nell’epoca del Capitale che si è fatto dominio su tutte le forme viventi del Pianeta, gli uomini devono anzitutto lottare-operare affinché la speranza si faccia arte. Solo dopo l’arte si farà speranza. Verrà, certo verrà, splendente di luce e di ali, l’ «Opera» degli uomini di buona volontà!
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Nel fare i miei auguri ad Annalisa per un lavoro che credo segni una tappa significativa nel risveglio della comunità degli artisti sardi da troppo tempo rapiti nei sogni di gloria dell’Arte che fu, non posso nasconderle un pensiero molesto. Nella nuova esposizione che si appresta a fare nei locali del liceo artistico di Cagliari, la materia pittorica accenna a rifarsi “fango”, a ripiombare nella notte portandosi con sé le sue tremule creature.
Visto il precedente del ‘98, si può ben sperare in altre rivelazioni, altre “uscite”. Ma la palude tragica — dico quella straordinaria mescolanza di oro e lapislazzuli, fango e cielo, che si estende a perdita d’occhio sopra le sue tele — se frequentata troppo a lungo, potrebbe farle perdere la prudenza e inghiottirla con tutti i suoi fantasmi.
Febbraio 2003
Luigi Mazzarelli